Sono oramai ripetute _ e risulterebbero anche ripetitive, se solo non si trattasse di gravi mancanze in relazione al rispetto dei diritti umani _ le segnalazioni di attese drammaticamente lunghe nei pronto soccorso dei diversi ospedali toscani. Non tempi di attesa in generale, si faccia attenzione, bensì attese che per il paziente risultano “in perdita”, ovvero senza prestazioni mediche volte a formulare una diagnosi e indirizzare a un reparto, un percorso, oppure alle dimissioni con prescrizioni. Si sa, si tratta, a leggere le costanti repliche da parte delle strutture o delle Asl interessate, nonché dei competenti uffici regionali, nella peggiore delle ipotesi, di segnalazioni reali, ma relative a eccezioni, sempre sfortunatissime eccezioni. Congiunzioni di fattori sfavorevoli.

Certamente. Decine, forse centinaia di eccezioni, senza che si abbia la classe di ammettere che di patologia organizzativa del pronto soccorso si tratta. Solo attraverso una diagnosi di tal genere, si potrebbe iniziare non tanto a cercare e sanzionare responsabili, quanto avviare una terapia a ampio spettro. I sistemi organizzativi possono essere oggetto di patologia: non c’è da vergognarsi o da negarlo, né tantomeno da proporre soluzioni che, senza una reale presa di coscienza, risultano inevitabilmente fallaci e costose. È evidente che il sistema del pronto soccorso, che riceve, come tale, un’onda elevata di domanda ipernutrita dagli affluenti delle richieste alle strutture territoriali, dai medici di famiglia, dalle guardie mediche. Una domanda, insomma, al momento attuale prevedibile.

La patologia del pronto soccorso deve essere affrontata tramite una approccio di falsificazionismo di stampo vagamente popperiano, laddove verifica e confutazione abbiano pari dignità e sia possibile quindi affrontare le problematiche senza che queste debbano essere percepite dal soggetto operante nel sistema (azienda ASL, Regione, etc) come offese alle quali reagire sdegnati e con ferme negazioni aprioristiche ma, al contrario, come indicatori per analizzare cosa non va e lavorare affinché il sistema funzioni al meglio in relazione ai propri obiettivi, che sono quelli di accogliere e processare più pazienti nel minor tempo possibile. Solo con tale procedura, sarà possibile attivare quei precorsi per riportare l’organizzazione pronto soccorso nella propria fisiologia, uscendo dal patologico-cronico in cui si trova adesso.

Certamente, potrà accadere che i responsabili non della patologia, si badi bene, ma della mancanza di analisi e iniziative per ridurre tale patologia, si vedano privati di premi produzione, premi obiettivo; questo, però, è un effetto secondario e non necessariamente definitivo. Voglio sottoporre alla vostra attenzione l’ultima segnalazione che ci è giunta. È la storia di una signora quasi novantenne (e per chi considera il problema “lontano”, si ricordi che tutti noi, se fortunati, arriveremo ad essere anziani, con il rischio di essere lasciati nelle stesse condizioni, inascoltati, e con meno forza per far valere le proprie ragioni) di Capannori. Una persona anziana; un malore – magari di per sé non degno di essere considerato urgenza, e nemmeno emergenza, ma tale da consigliare il trasporto al pronto soccorso. Non sappiamo quale posizione la signora abbia ricevuto nella codificazione dei triage, anche se l’età dovrebbe costituire un fattore moltiplicativo alla semplice divisione in colori o numeri.

Apprendiamo da La Nazione di Lucca del Primo ottobre che dal pomeriggio è rimasta in barella fino a sera. Una lettiga stretta, senza possibilità per una persona molto anziana di girarsi. Immaginiamoci adesso la scena: essere costretti su una barella, in un luogo certamente non piacevole, stando male, fra persone che passano, corrono, stanno a loro volta male, si lamentano. Luci molto intense, camici. E senza nessuna informazione sul “sé”. Sì, perché “fino a sera, nessuno l’ha visitata, ed è stata per ore e ore lì, parcheggiata, senza che succedesse niente”.

Ore di attesa in barella e senza comunicazione. Come direbbe qualcuno, strillando: “ma di cosa stiamo parlando?”. Sì, perché è sufficiente un caso. Questo caso, e ve ne sono molti, per minare la credibilità di un sistema che nega strenuamente di essere affetto da problematiche e da incompetenze. Così come il malato che rifiuta la malattia non fa che peggiorare, così il sistema sanitario che rifiuta di accettare l’esistenza di una problematica e non formula analisi e soluzioni, non può che peggiorare. Ore di attesa, in barella e senza comunicazione. “In serata finalmente, intorno alle 21:30, le hanno tolto il sangue per le analisi e intorno alle 22 le hanno fatto una radiografia, ovvero quasi sette ore dopo l’accesso”.

La signora, spostata in una stanza, è rimasta in barella fino alla mattina del sabato, al prelievo delle 7.30. La sensazione che di notte l’attività degli ospedali rallenti rimanendo attiva solo per le emergenze e urgenze è forte. Ed è il lato oscuro. Con un’altra promessa: quella del funzionamento dei macchinari H24, sette giorni su sette, 365 giorni all’anno, che è rimasta impressa su qualche evento sbandierato in note stampa, ma i cui

effetti, a oggi, restano scarsi in relazione al funzionamento della macchina sanitaria. Eppure, maggiore potere ed efficienza al pronto soccorso potrebbe significare, in molti casi, anche molti meno accessi successivi, cronicizzazioni, passaggi al privato, contenziosi. Questa vicenda si conclude “intorno alle 16 di sabato… la signora è stata ammessa negli ambulatori dove ha ottenuto di parlare con qualcuno”. La gente, nel dettaglio, i parenti della signora, sono “amareggiati per le condizioni in cui è stato ridotto l’ospedale. È chiaro che non c’è posto e che la struttura è troppo piccola: vedere per ore persone anziane parcheggiate nel corridoio è stato umiliante, c’erano anche altri due anziani, di quasi 100 anni”. Eppure, nulla si legge nelle fonti ufficiali circa il sottodimensionamento della struttura e delle sue capacità di elaborare la domanda.

È questa la sanità che vogliamo continuare ad avere?